La pandemia festeggia un anno e noi da un anno soffriamo le pene dell’inferno e con l’animo stiamo a metà strada fra la claustrofobia, l’arrabbiatura e la rassegnazione fatalistica. Come simbolo di cambiamento vengono confermate tutte le misure restrittive almeno fino al 27 marzo, di cui certamente non possiamo fare a meno se non fosse per gli effetti collaterali sull’economia.
Così speriamo di recuperare la Pasquetta persa l’anno scorso, così come ci era stato promesso lo scorso mese di ottobre che le restrizioni servivano per farci trascorrere un “Sereno Natale” quelle nuove ci promettono una “ Serena Pasqua”. Quasi sicuramente il “casatiello” o la colomba la mangeremo fra il chiuso delle pareti domestiche.
Fra gli sconquassi futuri, perché quelli immediati sono sotto gli occhi di tutti, c’è il problema delle pensioni.
Metà degli attuali giovani di 30/40 anni rischierà di non maturare alcun diritto alla pensione, perché matureranno l’età pensionabile ( da 67 anni in su) ma difficilmente matureranno i 20 anni di contributi necessari. Una generazione che dovrà sperare nella permanenza della pensione sociale.
La scomparsa dal tavolo delle trattative governo e sindacati, della cosiddetta pensione minima di garanzia aggrava la prospettiva.
La previdenza complementare, valida per chi può permettersela diventa un privilegio per una ristretta minoranza di lavoratori garantiti i quali maturando il tfr, il trattamento di fine rapporto, sono restii ad aderire ad un qualsiasi fondo pensionistico integrativo.
Un soluzione radicale che neppure i grillini hanno mai preso in considerazione, forse perché neppure sanno di che si tratta, è quello di abbandonare l’attuale modello su cui si regge la previdenza.
Il sistema pensionistico nostrano come del resto nella maggior parte dei paesi europei, non appare adeguato a fronteggiare situazioni di insufficienza pensionistica finchè l’importo della pensione sarà strettamente correlato al periodo lavorativo e al montante individuale accantonato, senza nessun intervento solidaristico.
L’Italia ha in comune con i paesi europei la caratteristica di sistema pensionistico di tipo “assicurativo” mentre i regimi di tipo “universalistico” invece forniscono pensioni flat rate, cioè un importo sociale indipendente sia dai livelli retributivi sia con la durata del periodo lavorativo.
Lo schema pensionistico italiano come le altre parti del nostro sistema di sicurezza sociale è ancora costruito sul modello del lavoratore dipendente tipico a tempo indeterminato, mentre il mondo del lavoro risulta oggi profondamente modificato.
La mancanza di un adeguata copertura delle carriere corte e discontinue non è un prodotto del sistema contributivo ma dalla frammentarietà del mercato del lavoro, aggravato dall’epidemia da Covid. L’insufficienza pensionistica quindi si sarebbe verificata anche nel sistema retributivo. In questo sistema infatti il rendimento è del 2% annuo e quanto più lungo è il periodo di contribuzione tanto maggiore sarà il rendimento e viceversa. Con 35 anni di anzianità contributiva la pensione è del 70% dell’ultimo stipendio. Se si confronta il tasso di sostituzione previsto nel contributivo con quello del retributivo a parità di anzianità e di retribuzione, si scopre che il sistema retributivo non è affatto così generoso come si pensa, perchè i tassi di sostituzione tendono a pareggiare. Ma con anzianità inferiori la cosa va decisamente peggio.
Nel sistema contributivo il lavoratore con 20 anni di contributi avrà un tasso di sostituzione del 49,2% , la pensione sarà quindi la metà dell’ultimo stipendio, sempre che si raggiungano i 20 anni di contributi e si ha uno stipendio!
Nell’attuale sistema che si poggia su criteri assicurativi individuali, per rendere le pensioni adeguate, due sono le strade: l’innalzamento dell’età pensionabile e l’integrazione della previdenza pubblica con i fondi pensione complementari. Il primo obiettivo è stato perseguito con la riforma Fornero, parzialmente addolcito con l’Ape sociale e quota 100, ma questa è in scadenza, forse, a fine 2021.
Sulla previdenza complementare c’è da dire tutto il bene possibile, dà un’aggiunta alla pensione Inps e non grava sulle casse dell’Inps.
C’è un però.
I lavoratori atipici e gli autonomi a basso reddito non possono accedere alla complementare perché non hanno diritto al Tfr oppure perché non sono in grado di effettuare nessun risparmio, a maggior ragione quello previdenziale. Gli incentivi di natura fiscale della complementare d’altronde avvantaggiano le retribuzioni medio alte.
E’ necessario riflettere sulla necessità di passare da un sistema pensionistico di stampo unicamente assicurativo ad uno che disegna la pensione pubblica su un modello diverso, solidaristico che prevede una base finanziata dalla fiscalità generale ed è su questa ipotesi che si dovrebbe sviluppare il confronto con le parti sociali.
Camillo Linguella