La Sentenza 13 aprile 2017, n. 82 della Corte Costituzionale ha stabilito che la disoccupazione percepita nell’ultimo periodo lavorativo, dopo che si maturato il diritto alla pensione, non può abbassare l’importo della pensione.
Questo è il giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna.
Con ordinanza del 2 marzo 2015, Il giudice di Ravenna censura la norma citata, che determina la retribuzione pensionabile, «nella parte in cui non prevede il diritto alla neutralizzazione dei periodi di contribuzione per disoccupazione nei limiti del quinquennio e dei contributi obbligatori, dei contributi per disoccupazione e dei contributi per integrazione salariale anche oltre il limite del quinquennio sempre che, nell’uno e nell’altro caso, gli stessi periodi contributivi non siano necessari per l’integrazione del diritto a pensione», al fine di escludere dalla determinazione della retribuzione pensionabile i periodi di contribuzione ridotta dal 3 dicembre 1996 al 19 giugno 2010, relativi alla contribuzione figurativa per disoccupazione e per integrazione salariale e alla contribuzione «effettiva da lavoro dipendente».
Infatti la lavoratrice  interessata ha percepito  dal 3 dicembre 1996 al 19 giugno 2010 una retribuzione inferiore rispetto a quella precedente e, inoltre, di essere rimasta disoccupata e sospesa in cassa integrazione ed ha richiesto di escludere dal computo della retribuzione pensionabile – e così di “neutralizzare” – i periodi di contribuzione obbligatoria e figurativa per integrazione salariale, anche oltre il limite del quinquennio, e i periodi contributivi per disoccupazione, che si collocano entro tale limite temporale, perché i  periodi indicati non sono necessari «per il perfezionamento dei requisiti del diritto a pensione alla data di compimento dell’età pensionabile» e che la «neutralizzazione» di tali periodi è necessaria, in quanto nessun meccanismo di computo della pensione «può mai danneggiare il lavoratore che continui a lavorare ovvero venga figurativamente considerato come al lavoro, dopo aver maturato un certo importo di pensione».
Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), «nella parte in cui non prevede il diritto alla neutralizzazione dei periodi di contribuzione per disoccupazione nei limiti del quinquennio e dei contributi obbligatori, dei contributi per disoccupazione e dei contributi per integrazione salariale anche oltre il limite del quinquennio sempre che, nell’uno e nell’altro caso, gli stessi periodi contributivi non siano necessari per l’integrazione del diritto a pensione».

La norma censurata dispone che, per le pensioni liquidate dopo il 30 giugno 1982, «la retribuzione annua pensionabile per l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti» sia costituita «dalla quinta parte della somma delle retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro, o corrispondenti a periodi riconosciuti figurativamente, ovvero ad eventuale contribuzione volontaria, risultante dalle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione».
Tale riduzione della pensione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 36, primo comma, Cost., in quanto sacrificherebbe la proporzionalità tra il trattamento pensionistico e la quantità e la qualità del lavoro prestato durante il servizio attivo.
Sarebbe pregiudicata, per altro verso, l’adeguatezza della prestazione previdenziale, con conseguente violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost.
I criteri di determinazione della retribuzione pensionabile non potrebbero in alcun caso «danneggiare il lavoratore che continui a lavorare ovvero venga figurativamente considerato come al lavoro, dopo aver maturato un certo importo di pensione» e imporrebbero di escludere dal computo i periodi che non sono necessari per conseguire il diritto alla pensione.
L’INPS e l’Avvocatura generale dello Stato hanno denunciato la carenza della motivazione in ordine alla rilevanza della questione sollevata.
L’INPS  evidenzia che il giudice rimettente ha trascurato di accertare se effettivamente il ricorrente conservi «il diritto al trattamento nonostante il taglio dei periodi contributivi indicati nell’atto introduttivo del giudizio».
A tale rilievo si associa anche la difesa dello Stato, che reputa sfornito di ogni prova l’assunto che la parte ricorrente, «per maturare il diritto alla pensione», non debba fruire anche «del periodo di contribuzione per integrazione salariale e per disoccupazione».
Nell’indicare come “non contestato” un fatto, che incide sulla rilevanza della questione proposta, il giudice a quo si è conformato alla regola di diritto, oggi enunciata dall’art. 115 del codice di procedura civile, che conferisce una precisa valenza probatoria ai fatti non specificamente contestati dalle parti costituite.
L’INPS e l’Avvocatura generale dello Stato non deducono di avere svolto contestazioni specifiche sui fatti che il giudice rimettente assume come pacifici e si limitano a obiettare che i fatti in esame devono essere suffragati da elementi di prova persuasivi.

L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’omessa sperimentazione di un’interpretazione adeguatrice.
Alla luce delle reiterate affermazioni del principio di “neutralizzazione della contribuzione”, il giudice rimettente avrebbe potuto interpretare la norma censurata in armonia con i princìpi sanciti dalla Carta fondamentale, senza investire questa Corte della soluzione del dubbio di costituzionalità.
Le pronunce della Corte, nel vagliare l’art. 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, hanno sempre ponderato la peculiarità delle fattispecie di volta in volta scrutinate (la contribuzione volontaria, con riferimento alle diversificate discipline di settore, i periodi di minore retribuzione, l’integrazione salariale), nei rapporti con la determinazione della retribuzione pensionabile (sentenze n. 433, n. 432 e n. 201 del 1999, sentenze n. 427 del 1997, n. 388 del 1995, n. 264 del 1994, n. 428 del 1992 e n. 307 del 1989).
Le pronunce menzionate, pur presupponendo una ratio decidendi unitaria, intervengono in maniera puntuale sulla normativa applicabile, con valutazioni calibrate sulla specificità delle molteplici situazioni coinvolte.
2.3.- Coglie nel segno l’eccezione di inammissibilità svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, con riguardo alla richiesta di estendere la “neutralizzazione” dei contributi per disoccupazione e integrazione salariale anche oltre i limiti dell’ultimo quinquennio che prelude alla decorrenza della pensione.
Il giudice rimettente equipara la contribuzione per disoccupazione che si colloca nell’ultimo quinquennio alla contribuzione per disoccupazione e per integrazione salariale che copre un periodo più risalente, senza porre in risalto le ragioni idonee a rendere a rime costituzionalmente obbligate l’addizione richiesta a questa Corte.
L’intervento auspicato si riverbera sulla determinazione del periodo di riferimento della retribuzione pensionabile, che esprime una scelta eminentemente discrezionale del legislatore (sentenza n. 388 del 1995, punto 4. del Considerato in diritto, e sentenza n. 264 del 1994, punto 3. del Considerato in diritto), volta a contemperare le esigenze di certezza con le ragioni di tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori.
A fronte di una previsione, incentrata sulla valutazione delle retribuzioni dell’ultimo quinquennio, e del richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, che ha inteso porre rimedio alle incongruenze del meccanismo di calcolo della retribuzione pensionabile nell’arco temporale indicato, il giudice rimettente non illustra le ragioni che allineano alle rime costituzionalmente obbligate l’estensione della “neutralizzazione” anche oltre il quinquennio.
A fronte di una previsione, incentrata sulla valutazione delle retribuzioni dell’ultimo quinquennio, e del richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, che ha inteso porre rimedio alle incongruenze del meccanismo di calcolo della retribuzione pensionabile nell’arco temporale indicato, il giudice rimettente non illustra le ragioni che allineano alle rime costituzionalmente obbligate l’estensione della “neutralizzazione” anche oltre il quinquennio.
La questione è fondata con riguardo ai periodi di contribuzione per disoccupazione che si situano nelle ultime duecentosessanta settimane lavorative, in riferimento a tutti i parametri costituzionali evocati.
Anche nel caso oggetto dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, si applicano i princìpi a più riprese enunciati da questa Corte.
Quando il lavoratore possiede i requisiti assicurativi e contributivi per beneficiare della pensione, la contribuzione acquisita nella fase successiva non può determinare una riduzione della prestazione virtualmente già maturata.
Tale principio è stato enunciato con riguardo alla contribuzione volontaria.
In particolare, chiamata a esaminare l’ipotesi di periodi di contribuzione obbligatoria di importo notevolmente inferiore e non necessari ai fini del perfezionamento della minima anzianità contributiva, questa Corte ha ritenuto «irragionevole e ingiusto che a maggior lavoro e a maggior apporto contributivo corrisponda una riduzione della pensione che il lavoratore avrebbe maturato al momento della liquidazione della pensione per effetto della precedente contribuzione» (sentenza n. 264 del 1994, punto 3. del Considerato in diritto).
Questa Corte ha ripreso tali argomentazioni anche nell’ipotesi di contribuzione figurativa del lavoratore collocato in regime di integrazione salariale, che subisce «la falcidia salariale imposta da eventi esterni alla sua volontà» e, in ragione della norma censurata, accusa tale pregiudizio «anche nel successivo trattamento pensionistico» (sentenza n. 388 del 1995, punto 3. del Considerato in diritto).
La natura della contribuzione versata, sia essa volontaria, obbligatoria o figurativa, non riveste alcun rilievo distintivo e non giustifica deroghe a un principio provvisto di valenza generale (sentenze n. 433 e n. 201 del 1999, n. 427 del 1997).
Nel solco tracciato dalle pronunce di questa Corte si è mossa anche la giurisprudenza di legittimità, oramai consolidata nel ribadire che ogni forma di contribuzione, sopravvenuta rispetto al maturare dell’anzianità assicurativa e contributiva minima, deve essere esclusa dal computo della base pensionabile, ove tale apporto produca un risultato meno favorevole per l’assicurato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 25 marzo 2014, n. 6966, e 24 novembre 2008, n. 27879). Si è precisato che la “neutralizzazione” non opera per quei periodi contributivi che concorrano ad integrare il requisito necessario per l’accesso al trattamento pensionistico (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 28 febbraio 2014, n. 4868, e 26 ottobre 2004, n. 20732).
La “neutralizzazione” non opera per quei periodi contributivi che concorrano ad integrare il requisito necessario per l’accesso al trattamento pensionistico (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 28 febbraio 2014, n. 4868, e 26 ottobre 2004, n. 20732).
Anche dagli sviluppi normativi più recenti, e in particolare dall’art. 12 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), traspare il ruolo cruciale del meccanismo di “neutralizzazione”, inteso come criterio volto a evitare sperequazioni e disarmonie nella determinazione della retribuzione pensionabile.
Le considerazioni svolte da questa Corte, nell’evolvere di un coerente orientamento, si impongono anche per i periodi di contribuzione per disoccupazione, relativi all’ultimo quinquennio della vita lavorativa.
Non è senza significato, a tale riguardo, che la stessa difesa dello Stato ritenga “plausibile” un intervento della Corte, volto ad assimilare i periodi di disoccupazione dell’ultimo quinquennio agli altri periodi di contribuzione ammessi al beneficio della “neutralizzazione”.
Non si ravvisano elementi che inducano questa Corte a disattendere, per i periodi di contribuzione per disoccupazione, la ratio decidendi che l’ha orientata nella valutazione dei periodi di minore retribuzione e di integrazione salariale.
Si deve rilevare, anche nella vicenda sottoposta all’odierno vaglio di legittimità costituzionale, che il legislatore, nel delimitare l’arco temporale di riferimento per il computo della retribuzione pensionabile, è vincolato al rispetto del canone di ragionevolezza.
Quando il diritto alla pensione sia già sorto in conseguenza dei contributi in precedenza versati, la contribuzione successiva non può compromettere la misura della prestazione potenzialmente maturata, soprattutto quando sia più esigua per fattori indipendenti dalle scelte del lavoratore.
Sarebbe intrinsecamente irragionevole un meccanismo che, per la fase successiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo, si tramutasse in un decremento della prestazione previdenziale, in antitesi con la finalità di favore che la norma persegue, nel considerare il livello retributivo, tendenzialmente più elevato, degli ultimi anni di lavoro.
L’irragionevolezza riscontrata è lesiva, in pari tempo, dei diritti previdenziali del lavoratore, che, con riguardo alla norma censurata, questa Corte riconduce agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
Si deve pertanto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di lavoratore che abbia già maturato i requisiti assicurativi e contributivi per conseguire la pensione e percepisca contributi per disoccupazione nelle ultime duecentosessanta settimane antecedenti la decorrenza della pensione, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell’età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di contribuzione per disoccupazione relativi alle ultime duecentosessanta settimane, in quanto non necessari ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima.
Quindi la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297, nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di lavoratore che abbia già maturato i requisiti assicurativi e contributivi per conseguire la pensione e percepisca contributi per disoccupazione nelle ultime duecentosessanta settimane antecedenti la decorrenza della pensione, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell’età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di contribuzione per disoccupazione relativi alle ultime duecentosessanta settimane, in quanto non necessari ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima.