Si discute assiduamente dell’esigenza di introdurre misure di flessibilità che consentano di anticipare il pensionamento. Nonostante la necessità sia evidente e condivisibile, è bene ricordare che sul bilancio del nostro sistema pensionistico gravano ancora le conseguenze di alcune norme del passato che hanno previsto requisiti di enorme favore: una lezione da non dimenticare
Michaela Camilleri
L’unico aspetto in materia di pensioni che da tempo sembra aver catturato l’attenzione politica e mediatica sembra essere quello dell’uscita anticipata dal mondo del lavoro. L’interesse dei policy maker ma anche dei cittadini è concentrato esclusivamente sul fatto che l’età per accedere alla pensione è troppo elevata rispetto al passato. Nonostante l’eccessiva rigidità introdotta dalla riforma Monti-Fornero sia ormai largamente riconosciuta e, di conseguenza, sia necessario intervenire introducendo una qualche forma di flessibilità in uscita, è bene però anche ricordare – soprattutto per evitare di ripetere i gravi errori del passato – che il nostro bilancio previdenziale è ancora appesantito da alcune importanti anomalie dovute proprio all’introduzione di norme che consentivano l’accesso alla pensione con requisiti di enorme favore, slegando completamente i contributi versati dall’ammontare delle prestazioni concesse.

Se si esamina la durata delle pensioni dalla loro decorrenza, sulla base dei dati INPS rielaborati nel Settimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, si scopre che all’1 gennaio 2019 risultano in pagamento 652.687 pensioni previdenziali con durata da 38 anni e più relative a uomini e donne andati in pensione nel lontano 1980 o ancor prima. Più in dettagli,  si tratta di 585.860 prestazioni IVS del settore privato (per l’80,4% femminili) e 66.827 del settore pubblico (per il 66,9% femminili).

Ma a che età sono andati in pensione i percettori di queste prestazioni? Le età medie relative ai soggetti che si sono pensionati dal 1980 e anni precedenti sono di 43,5 anni (41,7 anni gli uomini e 44 le donne) nel settore privato, dove pesano molto le età della pensione di invalidità e quella ai superstiti, e di 42,5 anni (41,1 gli uomini e 43,2 le donne) nel settore pubblico, con prevalenza di pensioni di anzianità, inabilità e superstiti ancora vigenti.

A giustificazione di questi risultati, si ricordano i prepensionamenti del settore privato e il fenomeno delle baby pensioni, maturate cioè a fronte di pochi anni di contributi versati: nel settore privato all’1 gennaio 2019 risultano ancora in essere oltre 236mila prestazioni dovute ai prepensionamenti avvenuti anche con 10 anni di anticipo rispetto ai requisiti generali tempo per tempo vigenti. Cifre che evidenziano come l’utilizzo di questo strumento sia stato “intensivo” fino al 2002, con oneri che, a differenza di quanto avviene in altri Paesi dell’Unione Europea, gravano sul bilancio pensionistico anziché essere considerati delle vere e proprie misure di  “sostegno al reddito”; nel caso del pubblico impiego, ad esempio, è stato possibile accedere al pensionamento dopo soli 14 anni, 6 mesi e un giorno per le donne sposate con figli, 20 anni per tutti i dipendenti statali e 25 anni per i dipendenti degli enti locali.
Fonte: il puntopensionielavoro.it