Meglio lasciare il tfr in azienda o investirlo nei fondi pensione? La domanda arrovella le menti dei lavoratori fin dalla riforma del tfr, nel 2007. Quindici anni fa era stato introdotto il meccanismo del silenzio-assenso per far decollare in modo vigoroso la previdenza complementare nella speranza di compensare il calo delle pensioni provocato dalla legge Dini del 1995 che aveva introdotto il sistema contributivo di calcolo delle pensioni.

In pratica dal 2007 è stato previsto il passaggio “automatico” del tfr dei dipendenti al proprio fondo pensione di riferimento, a meno che questi non facciano esplicita richiesta di lasciare la liquidazione in azienda. E se il barometro per tutti questi anni ha segnato bel tempo per i capitali accumulati nei fondi pensione, grazie ai vantaggi fiscali, alla presenza del contributo aggiuntivo del datore di lavoro (per chi versa anche un contributo minimo, accanto al tfr) e soprattutto ai rendimenti, negli ultimi mesi lo scenario è cambiato radicalmente e rapidamente per via del balzo dei prezzi al consumo. Questo perché il tfr in azienda si rivaluta sulla base dell’inflazione italiana: ogni anno si apprezza dell’1,5% fisso più il 75% dell’indice Istat. Di conseguenza prezzi in aumento alzano l’asticella che le performance dei fondi pensione devono battere per mostrarsi più appetibili agli occhi dei potenziali iscritti. Finora, come mostrano le rilevazioni Covip negli ultimi 20 anni (che è stato un periodo di inflazione bassa e in calo), i rendimenti medi dei fondi pensione hanno superato la rivalutazione del tfr  nonostante quest’ultima abbia un prelievo fiscale più leggero (il 17% contro il 20% dei fondi anche se in origine l’avevano all’11%).

Dopo la fiammata degli anni 70, con il picco del 1980 quando il valore medio dell’inflazione in Italia era al 21%, l’aumento dei prezzi ha rallentato progressivamente tanto che nell’ultimo ventennio il tasso ha oscillato attorno al 2% e dal 2013 non ha mai superato questo valore, fino al minimo del 2020. Ma ora le cose stanno cambiando. L’ultimo dato Istat segnala che in Italia a dicembre l’inflazione è salita del 3,9% su base annua, ai massimi da agosto 2008. Un incremento che fa salire la crescita media dei prezzi al consumo nell’intero 2021 al +1,9% dal valore negativo di 0,2% nel 2020. Il principale motivo del rialzo è legato all’aumento dei prezzi delle materie prime sostenuti dalla ripresa post pandemia, ma anche a fattori di natura geopolitica come il rallentamento delle esportazioni di gas della Russia.

Il risveglio dell’inflazione, farà segnare nel 2021 al tfr una rivalutazione attorno al 3%, dopo che i primi nove mesi si sono chiusi con un +2,3%, a fronte del quale i fondi pensione negoziali hanno fatto +3,1% e i fondi pensione aperti il +4,1% . Ma se l’impennata dei prezzi continuerà il benchmark ombra dei fondi pensione è destinato a salire ancora oltre la soglia del 3%.
Uno scenario ben presente ai gestori previdenziali che oltre alle difficoltà indotte dai tassi ai minimi devono ora guardarsi da questa nuova minaccia. La soluzione per dare una marcia in più ai portafogli è cercare fonti di rendimento, diversificando con investimenti in economia reale.

fonte: assinews.it