Continuiamo ad essere assillati in televisione da politici, economisti e (ormai) virologi che preannunciano che il futuro non sarà un romanzo distopico di Orwell, ma quasi. E come se non bastasse, i talk show non perdono occasione per pontificare prospettive cupe e incerte riguardo al mondo del lavoro, dove a farne le spese saranno come al solito i giovani.
Ma cosa possono fare questi per tutelarsi? Spegnere la televisione è una soluzione efficace, ma solo nel brevissimo termine. Iniziare a pianificare il futuro potrebbe essere un’idea più profittevole.
Se è vero che il mercato del lavoro era già stagnante a febbraio 2020, è vero anche che la pandemia non ne ha rifocillato la salute. I giovani entrano nel mercato del lavoro sempre più tardi e con contratti precari, atipici, che non aiutano a raggiungere una certa stabilità professionale. In questo panorama cinereo, mostrare resilienza (termine abusato di questi tempi) non è più sufficiente. Occorre agire per tempo, iniziando a spingersi verso una direzione orientata alla tutela previdenziale, in modo tale da poter colmare in futuro il gap previdenziale a cui si andrà incontro.
“E se il tempo è prezioso/ sarebbe meglio cominciare a nuotare/ o si affonderà come sassi/ perché i tempi stanno cambiando” cantava Bob Dylan nel 1964.
Si scrive 1964, si legge 2021.
La precaria sostenibilità del sistema pensionistico italiano
Dal 1995 in poi, dopo la Riforma Dini, si sono succedute profonde riforme che hanno avuto lo scopo di riequilibrare i conti pubblici, ma hanno esasperato una scia di problemi che non stati mai realmente risolti, accentuando la farraginosità del sistema previdenziale. Si è gradualmente passati dal vecchio regime retributivo a quello contributivo, tutt’ora in vigore. Con il metodo retributivo, gli importi delle pensioni venivano calcolati in base ad una media degli stipendi percepiti dai pensionandi negli ultimi anni; con il metodo contributivo, si considerano invece i contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa.
Questo riassetto ha avuto un doppio effetto dirompente: da una parte ha innalzato l’età pensionabile, dall’altra ha contribuito ad un progressivo calo degli assegni pensionistici. I millennials riceveranno dunque pensioni più basse e più tardi, per nulla in linea con quelle ricevute dai loro genitori e nonni.
In particolare, uno studio svolto da Censis e Confcooperative mostra uno scenario inquietante: sono quasi 6 milioni i millennials che rischiano di vivere in condizioni di povertà nel momento in cui raggiungeranno l’età pensionabile. Eppure non deve sorprendere, se si pensa che la quota di pensionati sulla popolazione totale tenderà a crescere, così come (e questo è un bene) aumenterà il periodo di inattività dopo la vita lavorativa.
Una scarsa percezione del gap previdenziale
Ma qual è l’approccio dei giovani di fronte a questo scenario? Si è già detto del rischio povertà che aleggia sulle nuove generazioni, tuttavia queste ultime non sembrano aver inquadrato l’attuale scenario pensionistico o, se lo hanno fatto, non sono ancora corse ai ripari. Dai dati Covip emerge che solo il 16% dei lavoratori under 35, ad oggi, ha aderito alla previdenza complementare, e che circa il 41% dei millennials non si sia ancora attrezzato per costruirsi una pensione “cuscinetto” da affiancare a quella pubblica. Le motivazioni di questa negligenza finanziaria possono essere diverse: bassa educazione finanziaria, tendenza a ritardare le decisioni finanziarie, cattivi suggerimenti di conoscenti non qualificati o semplice disinteresse.
Sono due i termini tecnici da inquadrare per aiutare le nuove generazioni a comprendere meglio il problema: il Tasso di Sostituzione e il Gap Previdenziale.
Il tasso di sostituzione è un parametro che consente di confrontare, in termini percentuali, la prima rata di pensione erogata dall’INPS e l’ultimo reddito da lavoro. Permette dunque di capire quale sarà la copertura garantita dalla pensione pubblica rispetto all’ultimo stipendio. Il gap previdenziale è invece quella parte che non viene coperta dalla pensione pubblica, quindi la differenza tra ultimo reddito percepito e assegno pensionistico. Per cui maggiore è il gap previdenziale, minore sarà il tenore di vita del pensionato rispetto a quando lavorava.
Ricorrendo ad un esempio: immaginiamo un lavoratore dipendente, il cui ultimo reddito prima della pensione era 1.800€ al mese e che al momento del pensionamento riceve mensilmente una rata di 1.200€, significa che il tasso di sostituzione è 66,6%. Il 33,4% residuo è il gap previdenziale, la percentuale di stipendio non compresa nella pensione pubblica.
È possibile oggi conoscere in anticipo, attraverso dei simulatori, il proprio tasso di sostituzione e il relativo gap previdenziale, allo scopo di tutelarsi per tempo attraverso un’oculata pianificazione previdenziale.
Quali soluzioni per colmare il gap previdenziale
Esistono varie soluzioni a disposizione del risparmiatore, la previdenza complementare è una delle migliori opzioni.
fonte: Wall Street Italia