Salvo rare eccezioni la classe politica italiana si è a lungo rivelata miope sull’importanza della previdenza complementare per il futuro del Paese e dei suoi lavoratori: ripristino del fondo di garanzia, cancellazione della tassazione annuale sui rendimenti e un nuovo semestre di silenzio-assenso tra le soluzioni da sperimentare per ridarle nuovo impulso.
Per descrivere la mancanza di un minimo di strategia della classe politica italiana, basta analizzare lo sviluppo del welfare complementare, che in tutti i Paesi – OCSE e non OCSE – rappresenta un pilastro importante della protezione sociale. Invece da noi il tema dei fondi pensione e del welfare complementare in generale, salvo rare eccezioni, non gode di grande appeal tra i politici e alcune parti sociali, e così si può dire pure per la sanità integrativa che, se fosse stata incentivata in modo intelligente, sarebbe stata assai utile in questa pandemia attraverso prestazioni come call center, telemedicina, test e servizi alla persona.
Eppure la previdenza complementare è importante per il futuro pensionistico soprattutto delle generazioni più giovani che non beneficeranno, almeno fino al 2040 quando il tasso di disoccupazione sarà prossimo al 4%, di situazioni di lavoro certe e continuative e di trattamenti pensionistici “retributivi” che hanno consentito a un’enorme platea di attuali pensionati, in primis i dipendenti pubblici, seguiti dai lavoratori autonomi e da molti dipendenti privati, di avere prestazioni più elevate rispetto ai contributi versati.
Di fondi pensione si è cominciato a parlare nei primi anni Ottanta ma la prima norma è il D.Lgs. 124 del 1993 derivato dalla proposta Amato-Rosini che però, per motivi fiscali e un poco ideologici, anziché far decollare i fondi li blocca fino alla legge Dini, la 335/1995 che, solo nel 1996, consente un iniziale decollo dei fondi pensione; sviluppo interrotto dalla legge Visco che, avendo assoggettato le rendite a tassazione ordinaria, di fatto vanificava i benefici fiscali in fase di contribuzione ma soprattutto comprometteva la fruizione delle prestazioni pubbliche soprattutto per la parte assistenziale (integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali, quattordicesima mensilità e benefici vari offerti da comuni, province, regioni e Stato centrale con la miriade di bonus correlati ai redditi). Insomma, si correva il rischio di essere tanto più penalizzati quanto più si era previdenti.
Finalmente arriva la legge di riforma 252/2005 scritta insieme a Maroni, la quale introduce una serie di vantaggi sia fiscali sia di flessibilità nell’utilizzo di questo strumento, che è un vero e proprio libretto di risparmio, e offre inoltre alle aziende che aderiscono al sistema complementare la possibilità di ottenere finanziamenti decennali a tassi interessanti, dato che la stragrande maggioranza delle imprese sono medio-piccole e hanno difficoltà a ottenere credito per cui spesso il TFR è la sola forma di finanziamento. Il fondo di garanzia consentiva alle aziende di ottenere a tassi bassi un finanziamento bancario equivalente al flusso di TFR versato ai fondi pensione permettendo così alla metà dei lavoratori occupati in queste realtà di poter accedere ai fondi pensione senza aggravi per le loro imprese. Evidente in questa legge la valorizzazione del pilastro complementare, visto come parte indispensabile dell’intero sistema pensionistico del Paese. Del resto l’Italia era agli ultimi posti nella classifica OCSE per patrimonio dei fondi pensione in rapporto al PIL, battuta anche da Paesi non OCSE: tutto bene? Non proprio!
Il governo Prodi del 2007 inspiegabilmente elimina il fondo di garanzia e impone alle aziende con più di 50 dipendenti di versare il TFR non destinato ai fondi pensione all’INPS. Insomma, si sottraggono risorse alle imprese per utilizzarli in spesa corrente. Se il fondo di garanzia era utile nel 2005, prima del credit crunch del 2008, oggi – con la enorme necessità di liquidità delle imprese colpite dagli effetti della pandemia – sarebbe fondamentale. Il governo successivo elimina per il risparmio gestito la tassazione annuale per ricondurla, come accade in tutto il mondo, al momento del riscatto della posizione ma non lo fa per i fondi pensione, con gravissimo danno per operai e impiegati iscritti che sono costretti a disinvestire i fondi per licenziamenti, dimissioni o cambi di posto di lavoro. Ma non finisce qui, perché i successivi governi aumentano la tassazione sui rendimenti, prima all’11,5% poi al 20%, come se il fondo pensione fosse speculazione finanziaria. E il governo Renzi si inventa pure il “TFR in busta paga” che, fortunatamente, trova scarsissima adesione anche per l’imperizia nelle disposizioni fiscali.
Eppure, la previdenza complementare è indispensabile per il futuro dei lavoratori considerando le sempre minori risorse pubbliche disponibili, l’enorme debito pubblico e la transizione demografica. C’è talmente tanta confusione che spesso politici, rappresentanti delle parti sociali e anche media parlano di secondo e terzo pilastro intendendo con secondo i fondi negoziali e qualche preesistente e relegando al terzo pilastro i fondi aperti e i PIP. Informo che il terzo pilastro è stato eliminato con la legge Visco 47/2000. Erano i vecchi 2,5 milioni in polizze vita che, da allora, non si sono più potute sottoscrivere beneficiando di un vantaggio fiscale che peraltro i precedenti governi avevano ampiamente amputato al solo 19%. Quindi, a differenza di molti Paesi europei, da noi manca il terzo pilastro.
Cosa fare? Anzitutto, è necessario un cambio della mentalità politica sia da parte della maggioranza che dell’opposizione; poi, occorre il ripristino del fondo di garanzia perché la sua eliminazione ha negato agli oltre 6 milioni di lavoratori delle micro e piccole imprese il diritto alla pensione complementare. Infine, una riforma fiscale che elimini la tassazione annuale e riporti all’11%, e anche meno, la fiscalità sui rendimenti. Utile sarebbe un altro semestre di silenzio assenso.
Alberto Brambilla
fonte: il punto pensioni e lavoro