L’Ufficio parlamentare di bilancio si è espressa sul DDL C. 1038 e sull’abbinata proposta di legge C. 75 Marattin relativi alla “Delega al Governo per la riforma fiscale, estendendo le sue riflessioni su dovrebbe procedere la futura tassazione per la previdenza complementare.
Il sistema di tassazione delle attività finanziarie prevede una aliquota del 26 per cento. Una eccezione è rappresentata dagli interessi sui titoli di Stato, per cui è prevista una aliquota ridotta pari al 12,5 per cento. Anche i redditi di capitale legati al risparmio previdenziale godono di aliquote ridotte: 20 per cento sui rendimenti della previdenza complementare e 17 per cento sulla rivalutazione del TFR.
Il DDL delega interviene sul trattamento fiscale dei rendimenti dell’accumulazione dei contributi alle forme pensionistiche complementari (il secondo e il terzo pilastro) e della gestione patrimoniale delle Casse pensionistiche cosiddette “privatizzate” che gestiscono la previdenza di base (il primo pilastro) dei liberi professionisti iscritti o no all’ordine (ordinisti e non ordinisti).
Previdenza complementare
Nella normativa vigente i contributi alle forme pensionistiche complementari sono deducibili dal reddito imponibile ai fini Irpef nel limite di 5.164,57 euro annui. I rendimenti maturati, misurati come incremento del valore del capitale rispetto all’anno precedente, sono soggetti all’imposta del 20 per cento salvo che per la parte derivante dai titoli di Stato alla quale si applica l’aliquota del 12,5 per cento. Alla maturazione dei requisiti, i benefici della previdenza complementare sono fruibili in forma di rendita e di capitale una-tantum. In entrambi i casi essi scontano un’aliquota proporzionale del 15 per cento che si riduce di 0,3 punti percentuali per ogni anno di contribuzione oltre il quindicesimo sino a un minimo del 9 per cento. Se la posizione previdenziale è riscattata anzitempo in toto o in parte, l’imposizione resta la stessa solo per alcune casistiche, al di fuori delle quali si applica l’aliquota proporzionale del 23 per cento.
La riforma prevede che, per la fase di accumulazione, si passi, con mantenimento di un’aliquota agevolata, da un’imposizione annuale sul maturato a una per cassa sui rendimenti (cedole, dividendi, affitti) e sulle plusvalenze effettivamente realizzati. L’obiettivo è quello di estendere anche alla previdenza complementare il principio di cassa. Sebbene sia condivisibile una regola generale di imposizione trasversale per tutti gli strumenti di investimento, nel caso specifico della previdenza ci sono, tuttavia, alcuni elementi di criticità che andrebbero opportunamente considerati.
Sono due in particolare gli aspetti rilevanti. Il primo riguarda la modalità di applicazione del prelievo. Il tenore letterale della norma sembra indicare che l’imposta sarà prelevata annualmente sul risultato di gestione del fondo. A differenza degli OICVM(Organismo di Investimento Collettivo in Valori Mobiliari), il prelievo resterebbe dunque in capo al fondo e potrebbe determinare effetti distorsivi, dato che la tassazione per cassa produce un incentivo a posticipare le ricomposizioni di portafoglio da cui scaturirebbero flussi di cassa, e/o può spingere a preferire le allocazioni che riducono le necessità di reinvestimento (come per esempio in quote di OICVM (Organismo di Investimento Collettivo in Valori Mobiliari) come fondi chiusi e aperti o ETF). C’è anche da considerare che una delle best practice suggerite dall’OCSE per la gestione del portafoglio è il graduale disinvestimento da azioni e immobili negli ultimi anni prima del pensionamento di uno o più iscritti, in modo tale da preparare per tempo la liquidità necessaria all’erogazione delle prestazioni minimizzando il rischio di disinvestimenti forzati in condizioni non convenienti dei mercati.
Il differimento dell’imposta sui rendimenti maturati nella gestione che non generano flussi di cassa produrrà una diminuzione dell’aliquota effettiva tanto più elevata quanto maggiore sarà il periodo di accumulazione, fornendo un incentivo al risparmio previdenziale. Tuttavia, questo ulteriore alleggerimento dell’imposta si aggiungerebbe a una normativa fiscale già fortemente agevolata, che in alcuni casi è più favorevole del trattamento assicurato dal modello “EET” ( Esenzione Esenzione Tassazione). Va, a questo proposito, ricordato che, sempre tra le best practice dell’OCSE, compare il suggerimento che nel modello “EET” l’esenzione dei contributi avvenga nella forma di detrazione dall’imposta, in modo da stimolare l’adesione delle più ampie platee degli individui con redditi medio-bassi, mentre per l’imposizione sui benefici il suggerimento è quello di richiamarli nell’alveo della normativa fiscale generale, magari distinguendo tra i benefici in forma di rendita e quelli in capitale una tantum.
Inoltre, se è vero che il passaggio all’imposizione per cassa incentiverebbe sia il prolungamento della contribuzione al piano pensionistico per il risparmiatore, sia una pianificazione di portafoglio su orizzonti più lunghi per il gestore, è vero anche che questi obiettivi sono già perseguiti dall’attuale normativa. Più in particolare, al di fuori di una limitata casistica ritenuta meritevole, il riscatto della posizione accumulata sconta l’aliquota proporzionale del 23 per cento, mentre l’allungamento della partecipazione è premiato con riduzioni dell’aliquota di imposizione dei benefici sino al minimo del 9 per cento.
Alla luce di questi elementi, le motivazioni per generalizzare la tassazione per cassa andrebbero adeguatamente soppesate.