Incentivare non solo l’adesione alla previdenza complementare ma anche la contribuzione: la sfida dei fondi pensione per garantire l’adeguatezza delle prestazioni tra iscritti non versanti e posizioni multiple.
Certi argomenti non si esauriscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Il tema della previdenza complementare è indubbiamente uno di questi: si discute da lungo tempo su come incentivare le adesioni, tra proposte di un nuovo semestre di silenzio-assenso e ampliamento dei vantaggi fiscali. Ciò di cui forse non si discute ancora abbastanza è come incentivare la contribuzione: il tema è fondamentale perché dall’importo dei versamenti contributivi dipende inevitabilmente l’ammontare della prestazione pensionistica integrativa che verrà poi erogata dal fondo pensione. Quando si parla dunque di previdenza, non solo complementare, occorre porre l’attenzione anche sul tema dell’adeguatezza del risparmio.
Analizzando gli ultimi dati elaborati dall’Autorità di Vigilanza nella sua Relazione Annuale, una delle sfide più importanti per i fondi pensione sembra essere allora quella di centrare quest’obiettivo (favorire un risparmio previdenziale adeguato) facendo i conti con almeno due fenomeni che sono all’attenzione della COVIP già da diversi anni e che possono compromettere l’adeguatezza delle prestazioni: le interruzioni contributive e le posizioni doppie o multiple.
Gli iscritti non versanti
Il fenomeno delle interruzioni contributive riguarda quella parte di iscritti che, per diverse ragioni, non partecipa con continuità a una forma di previdenza complementare e, di conseguenza, corre il rischio di non poter accedere a una prestazione pensionistica correlata ai propri bisogni. Escludendo i PIP “vecchi”, per i quali non sono disponibili dati a livello individuale, gli iscritti che nel corso del 2022 non hanno versato contributi sono 2,472 milioni, pari al 27,6% del totale (nel 2017 era il 23,5%).
L’incidenza degli iscritti non versanti è diversa tra le tipologie di forma pensionistica: più elevata nei fondi aperti e nei PIP (rispettivamente 37,2% e 34,8%); minore nei fondi negoziali e preesistenti (22,9% e 18,1%) nei quali confluisce anche il contributo dei datori di lavoro. Negli ultimi anni la quota di iscritti non versanti è cresciuta in particolar modo nei fondi negoziali per effetto del meccanismo di adesione contrattuale. È utile sottolineare che sul totale degli attuali iscritti ai fondi negoziali (3,696 milioni), circa il 43% è entrato a far parte del sistema tramite questo meccanismo automatico, introdotto a partire dal 2015 e oggi applicato in 14 fondi, che prevede un versamento “minimo” a carico del datore di lavoro sulla base di quanto stabilito dal contratto di riferimento con conseguente adesione automatica dei lavoratori.
Per una quota rilevante di iscritti la condizione di non versante ha assunto natura strutturale.
Alla crescita delle posizioni prive di versamenti ha contribuito anche il fenomeno delle posizioni multiple facenti capo a uno stesso individuo.
Una proposta potrebbe essere quella di incentivazione fiscale dei contributi che prevedano la possibilità di riportare ad anni di imposta successivi i benefici che non si sono utilizzati in una fase di incapienza fiscale, estendendone l’ambito di applicazione, attualmente limitato soltanto ai lavoratori di prima occupazione. In particolare, il riferimento è alla possibilità prevista per i lavoratori di prima occupazione, limitatamente ai primi 5 anni di isdcrizione alla previdenza complementare, di dedurre dal reddito, nei 20 anni successivi al quinto anno di adesione, i contributi eccedenti il limite di 5.164,57 euro pari alla differenza positiva tra l’importo di 25.822,85 euro (5.164,57 euro x 5 anni) e i contributi effettivamente versati nei primi 5 anni di partecipazione alle forme pensionistiche e comunque per un importo non superiore a 2.582,29 euro annui.
Michaela Camilleri
fonte: itinerariprevidenziali.it