Il presidente dell’Inps Tito Boeri è stato audito dalla  Commissione Lavoro Camera sui Vouchers oggi mercoledì 8 febbraio 2017 e non ha perso occasione per dare ancora una volta legnate ai sindacati.
Nel corso dell’audizione ha affermato che i voucher per il lavoro accessorio sono stati introdotti nel nostro ordinamento nel 2003. In tutti questi anni il loro campo di applicazione è stato progressivamente esteso dal legislatore, ampliando dapprima le categorie di lavoratori potenzialmente coinvolti, poi la gamma di attività regolabili con questo strumento e, infine, i canali di distribuzione. Il tutto senza che si fosse mai compiuta una valutazione dell’utilizzo di questo strumento. Nel frattempo i voucher hanno acquisito crescente importanza nel nostro mercato del lavoro. Come mostrato nella Tabella 1, i voucher venduti sono raddoppiati dal 2014 al 2016. Nell’ultimo anno sono stati venduti oltre 130 milioni di voucher, a fronte di prestazioni di più di un milione e mezzo di lavoratori (e circa 400.000 al mese). Come documentato dalla Tabella 2, questo sviluppo è stato di tipo estensivo più che intensivo: è aumentato il numero di prestatori e di committenti di anno in anno, mentre il numero medio di voucher corrisposti al singolo lavoratore è rimasto di fatto costante nel tempo (attorno ai 60 vouchers l’anno, pari a meno di 500 euro netti per lavoratore).
Una prima valutazione della diffusione dei voucher in rapporto alle intenzioni originarie del legislatore. L’analisi degli atti parlamentari documenta che gli obiettivi originari del legislatore nell’introdurre questo strumento nel nostro ordinamento erano principalmente i seguenti tre:

1. la regolarizzazione dei lavori di tipo accessorio rispetto a quello principale, anche per ampliare la base imponibile del sistema paese;

2. offrire temporanee opportunità di reddito aggiuntivo a fasce vulnerabili (immigrati, persone disoccupate, etc.);

3. ridurre l’area del sommerso in alcuni ambiti specifici (soprattutto agricoltura e lavoro domestico).
Il primo dei tre obiettivi, l’emersione del lavoro nero, non sembra essere stato conseguito se non in parte del tutto marginale. Anche qualora tutti i voucher corrispondessero a ore di lavoro sottratte al nero, si tratterebbe di una goccia nel mare dell’irregolarità. Secondo Istat nel 2014 il lavoro nero assorbiva circa il 16% delle posizioni lavorative e il 16% delle unità di lavoro, per circa 3.000.000 di unità di lavoro a tempo pieno. I voucher nel 2016 hanno coperto l’equivalente in termini orari di circa 70.000 posizioni lavorative a tempo pieno, vale a dire lo 0,3% del lavoro nero stimato.  La distribuzione territoriale dei voucher (barre blu nel grafico qui sotto) non corrisponde a quella del lavoro irregolare (barre rosse): nel Mezzogiorno risiedono più del 50% delle unità di lavoro irregolare mentre vengono venduti solo un terzo dei voucher. Nel Lazio risiedono il 12% delle unità di lavoro irregolare e vengono venduti solo il 4% dei voucher. Simili considerazioni si possono fare guardando alla distribuzione settoriale dei voucher: l’agricoltura, ad esempio, conta per un decimo del lavoro irregolare e solo il 2% dei vouchers venduti. Le analisi longitudinali di cui si da conto nel WorkINPS Paper n.2 dimostrano che sono abbastanza rari i casi di persone che hanno cominciato a contribuire grazie ai voucher (attorno al 14% del totale e per circa 50 voucher all’anno a testa). Infine, sotto il profilo dell’emersione delle entrate contributive, il contributo dei voucher è decisamente contenuto (nel 2016 circa 174 milioni di euro a fronte di oltre 185 miliardi di euro di contributi previdenziali Inps).  E’ anche possibile, anzi fortemente probabile, che i voucher abbiano loro stessi coperto condizioni di lavoro nero, laddove siano stati utilizzati per un numero di ore inferiore a quelle effettivamente prestate.
Tra i maggiori utilizzatori dei voucher, oltre ai sindacati, ci sono anche le cooperative.