Italia delle startup, atto secondo. Finora si è pensato a creare un tessuto di imprese innovative, adesso si punta tutto sugli investimenti. A voler sintetizzare in una battuta le 4 ore di dibattito tenuto alla Camera per commentare il rapporto Ocse sulla legislazione italiana delle startup (Startup Act), l’idea che l’Italia sia al bivio di una nuova stagione per le neo imprese innovative è quella che è stata rilanciata più volte.
È questa l’intenzione del governo, spiegata ad una vasta platea di investitori, dirigenti di acceleratori di impresa, imprenditori dal vice presidente della commissione Attività produttive Luca Carabetta (M5s).È questo quello che ha detto il direttore generale della per la politica industriale del ministero dello Sviluppo economico Stefano Firpo, che ha subito spiegato che quello che è stato fatto nel 2012 non aveva come focus gli investimenti, fermi da allora a poco più di 100 milioni l’anno contro i miliardi investiti in Europa. È questo quello che chiedono gli operatori da diversi anni: facilitare il mercato degli investimenti per ovviare al nanismo dell’ecosistema italiano, caratterizzato da piccole e piccolissime startup che non sono in grado di scalare il proprio mercato di riferimento.
Le difficoltà delle startup italiane e la piattaforma del governo
Il come non è ancora definito. Ma quello che farà il governo lo farà “insieme agli operatori dell’ecosistema”, ha detto Carabetta. “Non non vogliamo reinventare la ruota, le best practice ci sono già e cercheremo di prendere il meglio di quello che è stato fatto”. Certo, ha precisato il deputato, “Non voglio dire che quello che faremo sarà la soluzione a tutti i problemi delle startup italiane, ma cercheremo di risolverli senza imporre nulla, in accordo con gli attori dell’ecosistema”.
Il rapporto sullo Startup Act dell’Ocse ha evidenziato due aspetti fondamentali, che ricalcano in maniera piuttosto precisa le soluzioni individuate: in Italia si è creato un ecosistema di imprese innovative numeroso, ma ha grosse difficoltà a scalare. Mancano i capitali, mancano la propensione al rischio degli investitori, manca la volontà delle grandi imprese di fidarsi dell’innovazione che arriva dalle startup. Quando i soldi li trovano, spesso vengono dall’estero e spesso sono costrette a cambiare sede. I casi di Moneyfarm e di Musement, seppur diversi, lo confermano. Ma perché in Italia è così difficile crescere?
Lo Stato al centro del secondo atto delle startup
Una risposta ha provato a darla Firpo, che ha ammesso come finora non è stata pensata una vera e propria politica per il venture capital, gli investimenti in capitale di rischio delle startup che a detta degli esperti è il veicolo privilegiato per far crescere queste imprese. “Non è stato fatto nulla finora, ma ce lo eravamo proposti come secondo step. È il momento di farlo, ma non si può fare con i 30 milioni che è costata finora la policy per le startup”. Il pubblico dovrebbe incentivare gli investimenti in azioni delle startup. Come è presto per dirlo. Si aspetterà l’indagine conoscitiva lanciata da Carabetta e poi l’azione del Mise. Quello che si sa è che “lo Stato sarà assoluto protagonista. Nascerà una piattaforma pubblica in grado di dare supporto economico allo sviluppo e alla crescita delle imprese. L’attenzione verso l’innovazione sarà una delle nostre priorità”, ha aggiunto Carabetta.
la moral suasion per indurre i fondi pensione ad investire in startup una parte delle loro casse, il ruolo delle partecipate nella piattaforma pubblica di investimento annunciata al Digithon di Bisceglie sono tutti tasselli che vedono appunto lo Stato al centro di quella che è stata annunciata come la nuova stagione delle startup.
n questo scenario l’Italia proverà a giocarsi la sua partita.
fonte: agi