A dieci anni dalla grande crisi le vecchie ricette non servono più

Sono passati dieci anni. Era il 5 settembre 2008: i dipendenti della banca Lehman Brothers, con sede a Wall Street, riempirono le scatole di cartone con i loro effetti personali e se ne andarono a piedi sulla Settima Avenue. Licenziati per fallimento.
A dieci anni dalla “Grande Crisi”, un fenomeno epocale che ha comportato l’aumento delle diseguaglianze sociali e che è per molti versi all’origine di grandi cambiamenti politici come il trumpismo e il declino del progetto europeo, dobbiamo interrogarci se ne siamo davvero usciti. E rispondere di no: la crisi è ancora tra noi. Per uscirne non serve “tornare a come eravamo prima”, ma serve un’altra economia, oltre la teologia dei mercati, che si cimenti con la questione del superamento dell’altra “Grande Crisi”, quella ambientale-climatica.

L’ORIGINE DELLA CRISI
Ma torniamo a dieci anni fa. Che cosa originò la crisi? Per capire che cosa successe dobbiamo ripartire dalla globalizzazione. A fine anni Ottanta le multinazionali scalpitavano per uscire dai confini nazionali e rivendicavano la possibilità di collocare i loro prodotti daun capo all’altro del mondo senza vincoli di sorta. Ma scoprirono che il grande mercato mondiale non esisteva: solo il 30-35% della popolazione terrestre aveva i soldi in tasca per assorbire i loro prodotti. Tante imprese cercarono di contendersi pochi clienti e si lanciarono in una concorrenza feroce basata anche sulla riduzione dei costi. Fu così che il lavoro finì sotto attacco. Nei settori ad alta tecnologia la strategia prescelta fu l’automazione, negli altri settori si optò per il trasferimento della produzione nei Paesi a bassi salari. Emerse un nuovo mondo contrassegnato da un Sud affollato da lavoratori in semischiavitù e un Nord con un crescendo di disoccupati e lavoratori precari malpagati. Il risultato fu una classe lavoratrice mondiale più povera.
Ma ciò comportò un secondo risultato: l’esplosione del debito. Quando le buste paga si fanno leggere, non si vende tutto ciò che si produce. Servirebbe una più equa distribuzione della ricchezza, ma al sistema dominante questa prospettiva non piace: preferisce la soluzione dell’indebitamento. A ogni angolo di strada banche, istituti finanziari, concessionarie, supermercati, pronti a offrire a poveri e meno poveri, mutui, acquisti a rate, prestiti al consumo: il sogno di una vita al di sopra delle proprie possibilità a portata di mano. Ovunque le famiglie abboccarono.
Il Paese dove le famiglie si inguaiarono di più furono gli Stati Uniti: l’attrattiva fu soprattutto l’acquisto della casa. Nell’euforia degli affari furono offerti mutui anche a famiglie economicamente deboli, mutui inaffidabili presi a base di complesse attività speculative che coinvolsero banche, assicurazioni, fondi d’investimento, fondi pensione. Tutto filò liscio finché i tassi di interesse rimasero bassi: le case continuarono a rivalutarsi. Ma quando ci fu l’inversione di tendenza, molte famiglie non ce la fecero più e l’interocastello crollò. Cominciarono i primi fallimenti bancari, più nessuno si fidò dell’altro, l’intera attività creditizia si paralizzò per mancanza di fiducia reciproca, banche e imprese cominciarono ad annaspare per mancanza di fondi.

UNA VISIONE ALTERNATIVA NON C’E’ ANCORA
Dopo il fallimento della Lehman Brothers, fu chiaro che Il cedimento dell’anello debole avrebbe potuto devastare l’intero sistema. La decisione del sistema fu quindi che non ci sarebbe stata una Lehman bis. L’Amministrazione Obama stanziò fino a 800 miliardi di dollari per i successivi salvataggi bancari. La Bce e le banche europee si adoperarono, analogamente, per evitare crac nel vecchio continente. E si colpevolizzò la piccola Grecia per le malefatte delle banche tedesche.
Da allora viviamo in una lunga, perdurante crisi. Tutto nacque dalla globalizzazione neoliberista e dall’egemonia culturale che ha segnato tutto questo periodo. Ma non si è affermata, dopo il 2008, una visione, nuova, alternativa, del mondo e dello sviluppo, capace di correggere le iniquità che segnarono il periodo precedente. Come scriveva Antonio Gramsci, nell’interregno tra il vecchio che muore e il nuovo che non riesce ad affermarsi “possono nascere i fenomeni morbosi più svariati”. La rabbiosa rivolta popolare emersa in questi anni in America e in Europa è uno di questi fenomeni morbosi.
La vittoria di Trump e la crisi dell’Europa nascono da qui. Fenomeni che sono tutt’uno con la crisi della sinistra. I ceti popolari si sono spostati in parte a destra. In parte si sono riconosciuti in partiti di sinistra che hanno saputo recuperare un ruolo critico verso il sistema neoliberista e le diseguaglianze, come è avvenuto in Gran Bretagna e in Portogallo. In parte sono stati attratti da nuove forze critiche nei confronti della globalizzazione: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, i Verdi in Germania. In Italia questo ruolo è stato esercitato dal M5S, sia pure in modo diverso e assai più ambiguo, fino alla sua attuale subalternità alla Lega di Salvini: ma l’analisi secondo cui Lega e M5S sarebbero due facce della stessa medaglia è sbagliata e superficiale.
Rilanciare la funzione critica della sinistra non significa tornare agli anni Sessanta: il tema dell’eguaglianza deve sapersi collegare in modo innovativo con quello dello sviluppo sostenibile, perché la contraddizione ecologica ha assunto con la crisi climatica i connotati di una drammatica realtà con cui fare i conti per i prossimi decenni. L’ambiente non è più un limite allo sviluppo ma il prerequisito per uno sviluppo durevole e più felice per tutti nel rispetto del pianeta. La grande domanda è se la sinistra italiana sarà capace di questa riflessione strategica. Oggi possiamo solo constatare che il dibattito al suo interno non lascia intravvedere nulla di paragonabile.
Giorgio Pagano