Tra bisogno di sostegno pubblico, revisione dei piani di sostenibilità per categorie professionali e criticità sotto il profilo della stabilità dei fondi, servono interventi per costruire una forma complementare più strutturata e di grandi dimensioni. E anche un maggiore impegno da parte di tutti gli attori, casse, fondi pensione e compagnie di assicurazione, a investire nell’economia reale.
Nella storia nazionale, l’ultimo disastro che coinvolse l’intero Paese, diretta conseguenza della follia dei governanti del tempo, si concluse 75 anni orsono, tra infinite macerie: solamente poco più dell’11% dell’attuale popolazione era già nato prima del 1945. Di fatto, quindi, un’ormai sparuta minoranza di Italiani (una ridotta porzione di quell’11%) a inizio 2020 aveva un ricordo personale effettivo e una qualche consapevolezza, non solo libraria o filmica, di una guerra. In questo fortunato contesto di pace consolidata e duratura – frutto mai abbastanza lodato, in primo luogo, dell’Unione Europea – nel Paese, a febbraio/marzo, è deflagrata la pandemia. Un fenomeno certo per molti aspetti paragonabile a un evento bellico, dall’assai singolare caratteristica di essere globale (mondiale, si sarebbe detto in passato), senza Paesi neutrali o città aperte, ma combattuto da ogni singola nazione al proprio interno, contro un nemico invisibile, subdolo e con caratteristiche ancora largamente ignote.
Al momento, la guerra al Covid-19 non è certo vinta, ma, in Italia e negli altri Paesi dell’Unione, segna una stasi, da prudenzialmente stimare, per ora, soltanto una tregua, che la ripresa dei contatti interpersonali e, soprattutto, il ritorno della brutta stagione, negli ultimi mesi dell’anno, potrebbero, ahinoi, interrompere.
La tregua, tuttavia, consente di stendere i primi bilanci e, sperando di non ripiombare, in autunno, in una nuova pesante emergenza, di guardare al futuro del Paese.
Sotto il profilo umano, il consuntivo domestico della pandemia è agghiacciante: il numero dei morti equivale allo sterminio di tutti gli abitanti di cittadine della dimensione di Alba, Avola o Abbiategrasso e l’impoverimento stabile di ampie fasce di popolazione è altamente probabile, con una crescita esponenziale della disoccupazione. La battaglia contro il virus, in assenza di rimedi sanitari specifici, come dai tempi delle grandi pestilenze storiche sino alla spagnola di cent’anni fa, si è fondata sull’isolamento e, quindi, sul congelamento di tutte le attività con rilevanza esterna. La tregua si basa sul distanziamento, che comunque crea enormi difficoltà operative al mondo produttivo e, addirittura, impedirà, di fatto, la ripresa totale di molte iniziative imprenditoriali, in settori chiave, dalla ristorazione al turismo. La crisi che, parimenti, ha colpito le altre nazioni del mondo, rende incerte, se non fosche, anche le prospettive di breve e medio periodo delle esportazioni, cioè di una colonna dell’economia italiana.
Una miriade di autorevoli centri studi sta cercando di misurare le conseguenze della pandemia e di prevedere come vivremo domani. In questa sede, mi limito a svolgere talune semplici e non sistematiche considerazioni, essenzialmente d’ordine pratico, sulla situazione della previdenza, con un occhio particolare alla previdenza complementare, settore specifico in cui, da oltre sei lustri, opera Assoprevidenza, come centro tecnico nazionale.
L’IMPATTO SULLE DIVERSE FORME DI PREVIDENZA
Il sistema pensionistico di base (Inps e casse professionali) – il lettore scusi questa iniziale notazione corvina – nei primi mesi del 2020 ha subito un concentrato alleggerimento di oneri, atteso che la stragrande maggioranza dei deceduti a causa del coronavirus era titolare di pensione. La crisi economica, peraltro, renderà parossistico il fenomeno delle omissioni contributive; inoltre, la previdenza obbligatoria sarà necessariamente colpita da una diminuzione del numero dei contribuenti. L’Inps, operando in regime tecnico di ripartizione, dovrà attingere maggiormente al sostegno pubblico per pagare i trattamenti in essere, mentre le casse professionali private, soggette a un particolare regime di semi capitalizzazione, con valutazione di sostenibilità di lunghissimo periodo, dovranno probabilmente rivedere i loro piani di sostenibilità. L’ammontare delle prestazioni dei futuri pensionati subirà contrazioni.
Per molti aspetti risulta parimenti tendenzialmente pesante, ma con variegate peculiari problematiche, la situazione dei fondi di previdenza complementare, operanti, com’è noto, a contribuzione definita, in regime tecnico di capitalizzazione, con posizioni individuali, in assenza di componenti di mutualità. Stante la loro caratteristica strutturale, i fondi non dovrebbero incorrere in problematiche di sostenibilità, sebbene taluno possa presentare nel breve/medio periodo qualche criticità sotto il profilo della stabilità.
Va detto, innanzitutto, come il mondo dei fondi pensione, frantumato tra diversi comparti merceologici, gruppi e singole imprese, sia diversamente colpito dalla crisi economica generata dalla pandemia, con specifico riferimento alla regolare continuità dei flussi contributivi. Ad esempio, per i fondi dei bancari, degli assicurativi o dei pubblici dipendenti il flusso contributivo non conosce soluzioni di continuità, mentre le forme con aderenti afferenti ad altri settori produttivi si presentano a macchia di leopardo, con punte di particolare allarme per settori duramente colpititi (si pensi al commercio, al turismo, alla ristorazione).
Un dato di allarme, che accomuna tutte le forme (fatta eccezione per i fondi preesistenti in gestione assicurativa e per taluni Pip) riguarda gli investimenti e deriva dal contagio Covid subito dai mercati finanziari, i quali, sebbene sembrino aver ora superato i picchi negativi più profondi, mantengono quotazioni decisamente contratte rispetto a inizio anno, in un perdurante contesto di estrema volatilità. In sottofondo la crisi delle economie mondiali e le competizioni internazionali. Per i fondi per i quali la forte contrazione del valore degli impieghi si accompagni a un accentuato prosciugarsi dei flussi contributivi, sussiste qualche rischio di affanno nella liquidità (e, quindi, qualche problema di stabilità), specialmente se saranno chiamati a corrispondere, nei prossimi mesi, importanti flussi di anticipazioni – a cui gli iscritti, attanagliati dal bisogno, siano costretti a ricorrere – e di riscatti della posizione individuale, conseguenti alla perdita del posto di lavoro da parte degli aderenti.
I VANTAGGI DELLA CONFLUENZA TRA FONDI
L’ eterogeneità della situazione delle forme complementari mi sembra riproporre con nuova forza la necessità di momenti aggregativi tra loro. La sempre più complessa normativa di settore, poderosamente implementata dalla disciplina Iorp II, con i mille costosi adempimenti che essa comporta, aveva già palesato come le realtà di piccole e medie dimensioni non abbiano più ragion d’essere. Le difficoltà conseguenti alla pandemia indicano una nuova motivazione per realizzare confluenze tra fondi. Mi rendo conto di formulare una proposta assai eretica (e irta di difficoltà applicative), ma le aggregazioni dovrebbero intervenire anche tra forme di categorie, gruppi o imprese disomogenee, proprio perché la varietà dei bacini di utenza è di per sé una salutare diversificazione e consentirebbe di attenuare i rischi di specifiche contingenti difficoltà di taluno di essi. Si badi: questo non comporterebbe alcuna forma di mutualità/solidarietà tra popolazioni eterogenee, ma di per sé una forma complementare strutturata e di grandi dimensioni, intesa strumentalmente come mero veicolo, potrebbe fronteggiare meglio le contingenti criticità, di vario tipo, che nel tempo si presentino.
A FAVORE DELLE INFRASTRUTTURE SOCIALI
Da ultimo, desidero ancora spendere poche brevi considerazioni in tema di investimenti. Muoviamo dal ben noto mantra circa la viva opportunità, da più parti da tempo proclamata, di un crescente impegno negli impieghi patrimoniali dei fondi pensione (e delle casse professionali e delle compagnie di assicurazione) in favore della economia reale. Lo scenario del dopo Coronavirus – e spero di cuore che sia effettivamente un dopo – manifesta un’implementata rischiosità del mercato delle imprese e delle forme di impiego a esse direttamente collegate. Lo Stato, peraltro, presenta una crescente necessità di sottoscrittori di titoli pubblici, offrendo, bon gré mal gré, tassi che giudico interessanti, assumendo l’ipotesi, di cui sono persuaso, che per molti anni non ripartirà l’inflazione e che il Paese (e qui prevale l’ottimismo della volontà) riuscirà a sopravvivere, senza essere schiacciato dalla mole del debito pubblico. In questo contesto, reputo che il peso dei titoli di Stato nei portafogli dei fondi (e delle casse professionali e delle assicurazioni) sia destinato, naturaliter, a salire, fors’anche in misura sensibile, perché essi rappresentano un’oggettiva opportunità, che, peraltro, si sposa con l’interesse nazionale.
Sergio Corbello
11/6/2020
fonte: Insurancereview.it