Ogni anno all’approssimarsi delle legge di bilancio che ci siano guerre, terremoti od epidemie, scatta la riffa delle pensioni con i soliti irrigidimenti dai soggetti in campo che sono i soliti 3: i Sindacati, la confindustria ed il governo. Poi alla fine esce fuori il classico aggiustamento più o meno soddisfacente, ma che ha come elemento di continuità, il filo rosso dell’aumento della insostenibilità della spesa previdenziale.
Si ricordi che per sostenibilità si intende la capacità di un sistema di far fronte ai suoi impegni.
Il colpo di grazia a questa capacità, l’hanno dato la pensione di cittadinanza e la cosiddetta “quota cento” che di suo ha solo favorito la fuga dal pubblico impiego ma non l’aumento dell’occupazione che era il suo scopo principale anche perché come effetto “collaterale” più occupazione significa anche più contributi previdenziali utili per pagare le pensioni ai “quotisti”. Ma senza occupazione niente contributi e quindi tutto l’onere va a carico dello Stato, cioè di chi paga le tasse ( la metà della popolazione italiana).
Nel 1969 ci fu la prima grande riforma delle pensioni , la legge Brodolini (legge 153/69)
Quell’anno fu adottato il sistema a ripartizione: un sistema in cui con i contributi dei lavoratori attivi, si pagano le rendite ai pensionati. La riforma del 1969 istituì anche la pensione sociale per i cittadini con più di 65 anni di età, e quella di anzianità per i cittadini con 35 anni di contribuzione a prescindere dall’età. La pensione essendo calcolata sulla base alla retribuzione degli ultimi 5 anni di lavoro, era mediamente più favorevole rispetto ai contributi versati. Infine, venne prevista la perequazione automatica delle pensioni sulla base dei prezzi al consumo. Poichè si era in periodo di espansione ( il famoso boom) la cosa inizialmente reggeva e c’erano anche degli avanzi nel fondo lavoratori dipendenti.
Con la crisi economica degli anni 80 il sistema andò rapidamente in crisi per cui lo Stato dovette cominciare ad intervenire per ripianare i disavanzi fino al varo di una nuova riforma, la legge Dini appunto che introdusse il sistema di calcolo contributivo ( pensione calcolata sui contributi versati per gli assunti dal 1996) ma il sistema di finanziamento continuò ad essere a ripartizione.
La legge 335 del 1995 fu la seconda riforma della previdenza dopo quella del 1969.
Ma anche questa riforma non assicurò la sostenibilità del sistema per cui di fronte alla possibilità di un default dell’economia nel 2011, il governo Monti intervenne ancora e questa volta drasticamente sulle pensioni con la legge Fornero. Che per la sua drasticità, anche se basata su una giusta concezione prospettica, ha richiesto e richiede continui aggiustamenti.
Da qui la riffa annuale di cui si parlava prima. Da parte del governo c’è il desiderio di portare l’età effettiva di pensionamento a 65 anni, mentre le forze sociali puntano a 62. L’età legale per la vecchiaia ordinaria, si ricordi è di 67 anni, più aggiustamenti biennali legati alla speranza di vita, oggi bloccati.
Nel frattempo il correttivo più importante varato ultimamente è stato quello dell’ape sociale e dell’opzione donna, la prima perché i lavori non sono tutti uguali, la seconda per ridurre le differenze di genere che in realtà sono differenze penalizzanti solo per le donne. Ma per andarsene ad accudire i nipoti devono pagare lo scotto di un taglio pensionistico del 20% perché il calcolo è interamente contributivo. Il che aumenta e non riduce le differenze di genere.
Oggi abbiamo di fronte il seguente possibile scenario:
Quota 100 non prorogata, al suo posto a partire dall’1 gennaio 2022 ci sarà “Quota 102” con 64 anni di età, 38 anni di contributi, con un numero limitato di contribuzioni figurative al fine di tutelare il lavoro effettivamente svolto; “Quota 103”, con 64/39 o 65/38 a partire dal 2023; un parziale rinnovo per i disoccupati di APE sociale, di Opzione Donna ma con 60 anni di età e 35 di contributi, magari con il calcolo contributivo per il solo periodo dall’1 gennaio 1996; e un uso sempre più intensivo dei contratti di espansione e dei fondi di solidarietà.
Il contratto di espansione è un contratto finalizzato a sostenere il ricambio generazionale nelle aziende con più di 100 addetti – che hanno in atto processi di reindustrializzazione e riorganizzazione.
E’ stato pensato per favorire le assunzioni di personale qualificato e altamente specializzato; consistente la pensione anticipata fino a 5 anni per i lavoratori prossimi al ritiro che intendono aderirvi; riduzione dell’orario di lavoro e cassa integrazione straordinaria, fino a un massimo di 18 mesi, per tutti i lavoratori che non possiedono i requisiti per aderire allo scivolo pensionistico; una ricorso massiccio alla Formazione per il rimanente personale.
I fondi di solidarietà, disciplinati dal decreto legislativo n. 148/2015, invece forniscono strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa dei lavoratori dipendenti di quelle aziende non coperte dalla normativa in materia d’integrazione salariale o prestazioni integrative .
La principale prestazione è l’assegno ordinario, cioè un’integrazione salariale d’importo almeno pari alla cassa integrazione guadagni . Possono essere previsti, inoltre, finanziamenti alla formazione, prestazioni integrative o emergenziali in caso di cessazione del rapporto di lavoro e assegni straordinari fino alla maturazione del diritto alla pensione.
Ora presupponendo che la lotta all’evasione fiscale andrà pari passo con il mitico PNRR con risultati apprezzabili e che i sindacati riescano a definire meglio più concretamente che cosa dovrebbe essere la pensione di garanzia per i giovani, si dovrebbe avere la capacità di superare lo schema meramente assicurativo in cui sono ingabbiate le prestazioni per la vecchiaia ed invalidità e puntare maggiormente su un ampliamento dell’intervento della fiscalità generale.
Questa visione collide con lo slogan attuale della altrettanto mitica separazione fra l’assistenza e la previdenza e si rivela per quello che è, un puro esercizio accademico per separare poste di bilancio e dimostrare all’OCSE che la spesa pensionistica italiana è più che sostenibile. Ma se si vuol dare pensioni non solo sostenibili, ma anche adeguate, il ricorso all’assistenzialismo che chissà perché è diventata una parola bruttissima, come se fosse un’oscenità da caserma, è pressocchè ineludibile e socialmente equo.
Si ricordi che per adeguatezza delle pensioni si intende una rendita capace di mantenere un decente tenore di vita anche da pensionato.
Qui non è il caso di tirare in ballo la pensione complementare, che certamente è uno strumento utile per aumentare l’assegno pensionistico senza gravare sulle finanze pubbliche, ma riguarda solamente quell’elite di lavoratori che hanno un lavoro continuo che consente loro di effettuare del risparmio previdenziale.
Camillo Linguella