Troppa euforia: all’Italia del PNRR servono più merito, doveri e sviluppo vero

Le risorse del PNRR sembrano aver spinto tutti verso un’insensata euforia per il futuro del Paese: difficilmente infatti gli stanziamenti potranno tradursi in sviluppo, in assenza di interventi mirati a contenere il debito pubblico e a migliorare organizzazione del lavoro, produttività e salari.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – prevede un budget per l’Italia di circa 200 miliardi, di cui circa 125 di prestiti e circa 70 di sovvenzioni, oltre a 30 miliardi di Fondo supplementare per finanziare interventi non previsti dal Piano – e comprensibilmente ha creato un clima di euforia, forse eccessivo e troppo ottimistico nella politica e tra gli operatori economici.

La vigorosa ripresa 2021, e le prospettive di crescita intorno al 4,3% del PIL per il 2022 hanno trasformato l’euforia da teorica a pratica, con immediata richiesta di interventi per alleggerire le bollette energetiche oltre i 5 miliardi già stanziati, aumentare gli ammortizzatori sociali e prevedere altri bonus o, ancora, la rottamazione delle cartelle esattoriali, cioè il solito condono mascherato.

Proviamo allora a mettere qualche punto fermo a questa euforia.
a) Tutto andando bene, ma proprio tutto, alla fine del 2022 saremo forse allo stesso livello di PIL del 2019, un pochino ancora meno del 2008 ma con un debito pubblico, che dal 132% del Prodotto Interno Lordo, è schizzato al 154% e con oltre 300 miliardi in più da restituire rispetto al 2019. b) I redditi e i salari crescono poco, anzi negli ultimi trent’anni (tra il 1990 e oggi), l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite in termini reali del 2,9%.
Tutto questo ovviamente si riflette e ancor più si rifletterà sulle pensioni: salari poveri possono dare solo pensioni povere; è inutile che il sindacato continui a chiedere aumenti delle pensioni, farebbe meglio a far crescere i salari ma ci arriveremo tra poco.

c) Se siamo il fanalino di coda per salari e redditi, lo siamo anche per l’occupazione: ultimi in tutte le classifiche per tasso di occupazione complessivo, femminile e dei giovani, appaiati alla Grecia, distanti 10 punti dalla media UE e a un abisso dai Paesi del centro e nord Europa. In Germania su 83 milioni di abitanti ne lavorano 40 milioni; in Francia che ha una popolazione numericamente simile a quella italiana, quelli che lavorano sono 34 milioni; in Italia su 36,5 milioni di cittadini in età di lavoro solo circa 23 milioni quelli che effettivamente lavorano. Come si fa a mantenere il welfare, che è uno dei più costosi tra i Paesi avanzati (pesa per il 56% sull’intera spesa pubblica, interessi sul debito compresi), se solo poco più di un terzo dei cittadini italiani lavora?!
d) Ultimi siamo anche per incremento del tasso di produttività e arretrati di almeno 30 anni quanto a organizzazione del lavoro: nel 1990 un muratore con 60 anni e più andava sui ponteggi e oggi pure.

Alla luce di questi dati c’è ancora da essere euforici? Hanno capito politici, parti sociali e media che siamo alla fine di un ciclo e all’inizio di un nuovo periodo, che ci accompagnerà fino al 2050, caratterizzato da una profonda transizione demografica, peraltro, ormai quasi tutta scritta (salvo l’immigrazione), da una transizione energetica e ecologica che stravolgerà il nostro modo di consumare, viaggiare, produrre e vivere? Hanno valutato i rischi dell’inflazione, del tapering ( decrescita) e del nuovo Patto di Stabilità?

A sentire le proposte in giro, parrebbe di no, sembra di essere nel secolo scorso.Fra l’altro occorre iniziare dalla terza media a insegnare educazione civica, finanziaria e previdenziale.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

fonte: il puntopensionielavoro.it