Le Casse privatizzate, rifiutandosi di partecipare al Fondo Atlante che serve al salvataggio delle banche, dopo che si erano pronunciati per il Si, ha attirato o attirerà una prevedibile e non proprio favorevole attenzione sul proprio futuro. Non per rivalsa, ma sicuramente per velocizzare un processo pensato da tempo. Già il 30 giugno 2011, prima ancora della soppressione dell’Inpdap ed Enpals, avvenuta il successivo mese di dicembre, il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, rispondendo al question time al Senato aveva detto: “Penso che nella loro libertà e autonomia, fino a un certo punto, gli Enti di previdenza privati debbano pensare anche a processi di fusione” per garantire “la stabilità di queste casse”.  E’ indubbio che subiscono  minori entrate contributive derivanti dalla  crisi che ha comportato una diminuzione del numero degli iscritti alla singola E l’applicazione del metodo contributivo per la quale alcuni enti hanno optato a salvaguardia dei propri conti e della sostenibilità finanziaria non può non intaccare le prestazioni offerte.
L’andamento non soddisfacente di alcuni enti di previdenza privatizzati, che non riescono a garantire la soglia minima di sopravvivenza dettata dalla vigente normativa, ovverosia una capacità di erogare le pensioni per i successivi trenta anni, dovrebbe riaprire  il processo di fusione che in questi anni è stato accantonato. Non si dimentichi lo sgarbo fatto al governo sulla mancata partecipazione al fondo salva banche Atlante, dove si impegnarono ad investire 500 milioni di euro, per poi rimangiarsi la parola. L’attuale esecutivo non è uso dimenticare certe cose e quindi non si può dubitare che appena varata la legge sul mercato del lavoro e la concorrenza ormai in dirittura di arrivo dal Senato, che costringe i fondi pensione ad unificarsi, questa avrà ripercussioni accelerative sugli enti privatizzati.
La privatizzazione degli Enti di Previdenza ed Assistenza dei Liberi Professionisti ha origine in alcune norme di delega contenute nella legge finanziaria del 1994 (L. n. 537 del 29 dicembre 1993), con le quali il Governo Ciampi attuò il riordino degli istituti e dei regimi previdenziali e assistenziali allora esistenti.
Il riordino poteva essere realizzato secondo diversi criteri, offerti dallo stesso legislatore, che andavano da una direttiva sulla fusione degli Enti, all’incorporazione di funzioni, all’eliminazione di duplicazioni, fino alla previsione di un possibile percorso di privatizzazione delle Casse di Previdenza e Assistenza dei liberi professionisti.
Con il d.lgs. n. 509 del 30 giugno 1994 fu riconosciuta la possibilità di trasformazione in soggetti giuridici di diritto privato, ferma restando l’obbligatorietà del prelievo contributivo e delle prestazioni , a quegli Enti che avevano i conti in attivo, privi di contributi statali e con una riserva legale corrispondente alla copertura di almeno cinque annualità di rate di prestazioni.
Partendo dal presupposto che tali Enti fossero una  realtà complessa, e composta dalle specificità di ciascuno, emanazione di professioni anche molto diverse ma che si configurano unitariamente come un modello innovativo, si voleva coniugare l´autonomia privata degli Enti stessi con la funzione pubblica esercitata così da renderle strutture più agili e dinamiche. Nel corso degli anni questo scopo iniziale si è un po’ scolorito e il governo ha cominciato a considerarli enti pubblici e basta assoggettandoli perfino alla spending review facilitando l’operazione con l’amplificazione di alcune scelte di investimenti che hanno suscitato scandalo e allarmismo..
Le casse di previdenza dei liberi professionisti godono, apparentemente, di una salute discreta. I dati del 2015, illustrati nei giorni scorsi dal rapporto del centro studi di Itinerari previdenziali guidato da Alberto Brambilla, mostrano che nel 2015 il patrimonio complessivo delle casse è cresciuto del 6,77% sfiorando quota 70 miliardi. Sale anche la raccolta contributiva, arrivata a 9,350 miliardi e il numero degli iscritti, seppure di poco (+8.275). Fin qui tutto bene. Ma l’importo delle pensioni erogate, arrivato a 5,792 mld, cresce più velocemente (+5,2%, contro il +2,8 dei contributi versati) e il rapporto attivi/pensionati scende dal 4,26 al 4,14: siccome molte di queste casse hanno pochi anni di vita e quindi pochissimi pensionati, la tendenza, se dovesse proseguire, diventerebbe preoccupante nel momento in cui andranno in pensione un numero sempre crescente di professionisti.
Ma il problema delle casse di previdenza è che da molti anni il loro patrimonio e le loro entrate contributive fanno gola a chi, nel governo, deve preoccuparsi della ricerca di sempre nuove e sempre più difficili da trovare risorse finanziarie. Più volte i governi degli ultimi anni hanno ceduto alla tentazione di mettere le mani sulle casse dei professionisti per risolvere problemi del bilancio pubblico: l’ultima manovra economica di Tremonti aveva portato la tassazione delle rendite finanziarie dal 12,5% al 20. Nel 2014 sono salite al 26%,
Lo scorso mese di settembre intanto l’Adepp (Associazione degli Enti previdenziali privati) ha approvato “con un solo astenuto e tutti i presenti favorevoli” il Codice di autoregolamentazione sugli investimenti delle Casse. Alberto Oliveti il presidente dell’Associazione, in coda all’Assemblea ha puntualizzato di trattarsi  di “un documento di indirizzo politico, rigoroso, flessibile e modulabile” secondo le esigenze delle Casse e soprattutto “proattivo”, nel senso che “non si contrappone” al decreto governativo sugli investimenti degli Enti. Il testo “entra nella politica di investimento degli Enti e nelle modalità di gestione delle risorse”, mentre sul fronte dei limiti agli investimenti, aggiunge, “sostanzialmente si rifà a quello che finora conosciamo dell’analogo decreto” (laddove gli investimenti immobiliari sono previsti nel limite del 35% del totale delle disponibilità). Poi ogni Cassa sottoporrà il testo alle sue valutazioni”.