E’ il dato relativo al 2015 che emerge dall’ultimo rapporto annuale dell’Istat. Le famiglie “jobless” sono passate dal 9,4% del 2004 al 14,2% dell’anno scorso e nel Mezzogiorno raggiungono il 24,5%, quasi un nucleo su quattro. La quota scende all’8,2% al Nord e al 11,5% al Centro. L’incremento ha riguardato le famiglie giovani rispetto alle adulte: tra le prime l’incidenza è raddoppiata dal 6,7% al 13%, tra le seconde è passata dal 12,7% al 15,1%.
La spesa per prestazioni sociali è pari al 27,7% del Pil nella media dei Paesi Ue e al 28,6% in Italia. È più elevata in Danimarca, Francia, Finlandia e Grecia (compresa nel 2013 tra il 32,1 e il 30,3%) e più bassa in Estonia, Lituania, Romania, Lettonia (poco più del 14%).
 I sistemi di welfare dei diversi paesi hanno reagito con modalità differenti allo shock della crisi. Regno Unito e Svezia sono intervenuti con un’azione di contenimento della spesa sociale mentre Danimarca, Germania e Paesi Bassi l’hanno aumentata nel 2008 e, soprattutto, nel 2009.
 La spesa per protezione sociale ha continuato a crescere in Italia, negli altri paesi del Sud Europa e in Irlanda, ma in maniera molto più contenuta del passato.
 Tra quelli europei, il sistema di protezione sociale del nostro Paese è uno dei meno efficaci. Nel 2014 la quota di persone a rischio povertà si è ridotta di 5,3 punti dopo i trasferimenti (da 24,7 a 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue27 di 8,9 punti.
 In Italia la disuguaglianza nella distribuzione del reddito (misurata attraverso l’indice di Gini sui redditi individuali lordi da lavoro) è aumentata da 0,40 a 0,51 tra il 1990 e il 2010; si tratta dell’incremento più alto tra i paesi per i quali sono disponibili i dati.
 Assumono particolare rilievo interventi pre-distributivi in grado di incidere sul funzionamento dei mercati e in particolare sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari. Tra questi si includono le politiche (di istruzione e sulla salute, in primis) che aiutano gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro.
 Le differenze di genere, di età, di titolo di studio e di posizione contrattuale (in particolare la stabilità dell’occupazione) sono le principali fonti della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi lordi da lavoro sul mercato.
 Il vantaggio degli individui con status di partenza “alto” (ossia che a 14 anni vivevano in casa di proprietà e che avevano almeno un genitore con istruzione universitaria e professione manageriale), rispetto agli individui che invece provenivano da famiglie di status “basso” (ossia con genitori al più con istruzione e professione di livello basso e con casa in affitto) è più basso in Francia (37%) e in Danimarca (39%), mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), in Italia (63%) e Spagna (51%).
 Nel 2015, a tre anni dal conseguimento del titolo, risulta occupato il 72,0% dei laureati (77,1% nel 1991) e il 53,2% ha trovato un’occupazione ottimale (ossia caratterizzata da un contratto standard, altamente qualificata e di durata medio-lunga).
 La crescente vulnerabilità dei minori è legata alle difficoltà dei genitori a sostenere il peso economico della prima fase del ciclo di vita familiare, a seguito di opportunità di lavoro scarse e precarie. Per loro l’incidenza della povertà relativa è salita dall’11,7 al 19% tra il 1997 e il 2014.
 Nello stesso periodo migliora la condizione degli anziani – l’incidenza della povertà relativa è scesa da 16,1 a 9,8% – associata sia al progressivo ingresso tra gli ultrasessantaquattrenni di generazioni con titoli di studio più elevati e una storia contributiva migliore sia all’essere percettori di redditi “sicuri”.
Dal 2003 al 2014 i nuovi pensionati con oltre 40 anni di contributi sono quadruplicati, passando dal 7,6% al 28,8%, oltre uno su quattro. E’ quanto emerge dal Rapporto annuale 2016 dell’Istat. L’incidenza di quelli che hanno versato contributi per non più di 35 anni scende dal 54,9% al 37,5% e quella di chi ha versato contributi per un periodo di 36-40 anni passa dal 37,6% al 33,7%. I nuovi pensionati del 2014 ricevono prestazioni più elevate di quelli del 2003 non solo per le carriere più lunghe e regolari, ma anche perché “il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo è ancora al di là dal dispiegare effetti diffusi”. Nello stesso periodo 2003-2014, l’età di pensionamento si è progressivamente innalzata, salendo in media da 62,8 anni a 63,5. L’età mediana è passata da 60 a 62 anni.
Il sistema di protezione sociale italiano è tra quelli europei “uno dei meno efficaci”. Lo rileva il Rapporto annuale Istat 2016, evidenziando come “la spesa pensionistica comprime il resto dei trasferimenti sociali”, aumentando il rischio povertà. Nel 2014 il tasso delle persone a rischio si riduceva dopo il trasferimenti di 5,3 punti (dal 24,7% al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue di 8,9 punti. Solo in Grecia il sistema di aiuti è meno efficiente che in Italia. L’Istat sottolinea che in Italia la disuguaglianza nella distribuzione del reddito (misurata attraverso l’indice di Gini sui redditi individuali lordi da lavoro) è aumentata da 0,40 a 0,51 tra il 1990 e il 2010; si tratta dell’incremento più alto tra i paesi per i quali sono disponibili i dati.