L’Inps ha pubblicato il 30 maggio 2018 l’Osservatorio sulle pensioni della Gestione Dipendenti Pubblici (GDP), con i dati sulle prestazioni vigenti al 1° gennaio 2018 e liquidate nel 2017.
Il numero delle pensioni vigenti al 1° gennaio 2018 è pari a 2.864.050, in aumento dello 0,7% rispetto all’anno precedente (2.843.256).
Per quanto riguarda la ripartizione per cassa, il 59% delle pensioni è erogato dalla Cassa Trattamenti Pensionistici Statali ( CTPS), seguita dalla Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali ( CPDEL) con il 37,8%. Le altre casse rappresentano complessivamente poco più del 3% del totale.
Per quanto riguarda le prestazioni vigenti al 1° gennaio 2018 per categoria e sesso, emerge che il 56,8% delle pensioni sono di anzianità o anticipate; il 13,4% sono pensioni di vecchiaia; le pensioni di inabilità sono il 7,9% e il restante 21,8% è costituito, complessivamente, dalle pensioni erogate ai superstiti. Il 58,6% del totale dei trattamenti pensionistici è erogato alle donne.
Per quanto riguarda, invece, le pensioni liquidate nel 2017, la categoria delle pensioni di anzianità/anticipate è la più numerosa con il 51,6% del totale. Le pensioni ai superstiti rappresentano il 30,5% del totale come numero e il 16% come importo. Infine le pensioni di vecchiaia e di inabilità sono rispettivamente circa il 12% e il 6% sia nel numero sia nell’importo.
Pensioni GDP: dati per area geografica
La distribuzione per area geografica delle pensioni vigenti al 1° gennaio 2018 mette in evidenza che il maggior numero delle prestazioni è concentrato al Nord (40,9% del totale), seguito dal 36% al Sud e nelle isole e dal 23% al Centro. Esiguo il numero delle pensioni erogate all’estero, pari allo 0,1% del totale.
Le regioni con il maggior numero di pensioni pubbliche sono la Lombardia e il Lazio, che erogano rispettivamente l’11,8% e l’11,6% del totale, seguite dalla Campania (9,2%) e dalla Sicilia (8,3%). Le regioni che erogano il minor numero di pensioni sono la Valle d’Aosta (0,2%), il Molise (0,6%) e la Basilicata (1%).
Queste la sintesi dei dati nudi e crudi. Ma anche in questi c’è qualcuno che intravede o denuncia che la pensione degli statali arriva prima rifacendo il solito refrain del posto fisso, delle pensioni baby eccetera.
Le baby pensioni, e ci riferiamo agli anni 70 ed è una categoria che ormai conta pochi superstiti, furono introdotte in periodi di espansione economica a tutela della famiglia e per la riduzione degli organici. La spesa, allora, non incideva più di tanto sul PIL perché era spesa corrente a carico del Tesoro, non esistendo un’apposita cassa pensione per gli statali, istituita solo nel 1996 con la legge Dini, mentre la Cpdel, la cassa pensione dei dipendenti degli enti locali e sanità e la CPS Cassa pensione dei medici ospedalieri, avevano addirittura dei surplus di bilancio.
Il discorso delle carriere ininterrotte ed in progressione positiva, era valido fino all’introduzione del precariato nella Pa, da allora in poi, diciamo a partire dal pacchetto Treu in avanti, i due settori, pubblico privato, si sono molto avvicinati.
Fino alla legge Madia che soppresso la possibilità di chiedere il trattenimento in servizio ai dipendenti pubblici fino a 67 anni, circa l’80% dei dipendenti pubblici di sesso maschile utilizzava questa possibilità.
Per far pagare “ il fio delle pensioni baby”, in attuazione della sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee del 13 novembre 2008 sulla presunta disparità di trattamento fra uomini e donne del settore pubblico sull’età pensionabile, queste dai 60 anni previsti fino al 2009, a partire dal 2012 sono state costrette a rimanere in servizio fino a 65 anni. Con la riforma Fornero a decorrere dal 1.1.2012 il requisito anagrafico di età è stato fissato a 66 anni, poi a 66 e 7 e, dal 2019, 67 anni.
Né si possono dire soddisfacenti i risultati connessi alla cosiddetta flessibilità in uscita che comunque hanno trovato un punto centrale nell’ ape sociale.
Attualmente la disparità previdenziale di genere è ancora molto accentuata.
Poi ci sono le dolenti note sui tempi di pagamento, la prima di ordine organizzativo che porta i lavoratori pubblici ad avere nei casi ordinari il promo assegno a distanza di tre/quattro mesi dal pensionamento. Ed in questo arco di tempo non possono fare neppure affidamento, per le ordinarie esigenze di vita, sulla liquidazione, tfs o tfr che sia. Perchè questi, nella migliore delle ipotesi, ai sensi di legge, sarà pagato solo dopo 15 mesi e in caso di ape sociale anche due o tre e perfino 4 anni.