Il welfare aziendale non aumenta i redditi

In un recente articolo apparso anche su “il Punto”, il blog di Itinerari Previdenziali, il prof Alberto Brambilla, dopo aver ricordato come in Italia, secondo l’ OCSE, negli ultimi 40 anni il valore reale dei salari e dei redditi è diminuito del 2,9%, afferma che è possibile migliorare il potere d’acquisto ( dei solo lavoratori dipendenti) senza generare nuova spesa pubblica a debito, utilizzando un ricorso sempre più marcato al welfare aziendale.

Grosso modo ognuno di noi sa che cos’è il welfare, e come esso consista in una serie di misure adottate per tutelare i bisogni sociali delle persone e dei gruppi. In tempo di espansione economica il “welfare state” ha ampliato molto le sue aree di intervento ma, a causa delle continue crisi economiche, a partire dagli anni 70 del secolo scorso, queste sono state progressivamente ristrette. E la tutela dei bisogni che prima erano finanziate dallo Stato, sono passate a carico dei richiedenti.
Gli esempi classici sono la sanità e le pensioni: dall’intervento statale a tutto campo si è passato ad un “definanziamento progressivo”, mettendo in parte, a carico dei diretti interessati, le risorse non più erogate con la spesa pubblica. Si pensi ad esempio alla previdenza complementare e la sanità integrativa. In questi due settori, lo Stato vi partecipa solo come regolatore.
Si torna al principio delle società mutualistiche del 1800 quando i datori di lavoro e i dipendenti davano vita a società di mutuo soccorso di vario genere. Oggi queste mutue si sono trasformate in erogatrici di benefit delle aziende, specie se di grandi dimensioni dando vita al c.d welfare aziendale.

Il welfare aziendale, è disciplinato dalla contrattazione sindacale con i contratti nazionali di categoria o più raramente intercategoriali o territoriale che prevedono materie riservate o delegate alla contrattazione integrativa.
La proposta del professor Brambilla incentrata sull’uso sempre più marcato del welfare aziendale per aumentare i salari è indubbiamente suggestiva ma che, se andiamo a fare un ragionamento più complessivo sulla quantificazione del costo del lavoro e delle risorse disponibili dalle imprese, è di scarsa efficacia rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Schematicamente, il costo del lavoro è uno degli elementi che gli imprenditori si trovano a dover utilizzare assieme a gli altri elementi quali il capitale, tecnologia eccetera per produrre un prodotto o un servizio competitivo sul mercato.

Nel formulare un bilancio preventivo, l’imprenditore stabilisce quali sono le somme da destinare per gli investimenti e quali per il lavoro per ottenere il risultato che si prefigge.
Restringendo l’analisi solo sul costo del lavoro, nonostante i tentativi fatti, esso non è facilmente comprimibile ma tende ad espandersi. Anzi, non potendo diminuire il costo del lavoro per i connessi risvolti sociali eccetera l’imprenditore ha a disposizione pochi elementi come la fiscalizzazione degli oneri sociali, la delocalizzazione della produzione verso quei siti dove il costo del lavoro è minore, riducendo l’aliquota delle contribuzioni sociali ( declupling) oppure investendo più in tecnologia e riducendo il numero delle risorse umane da utilizzare. Mentre prima gli investimenti tecnologici puntavano a utilizzare strumenti che svolgessero un lavoro prevalentemente manuale, oggi si punta a utilizzare strumenti che producono anche lavoro intellettuale.
L’introduzione del salario minimo fatto per via legislativa e non per via contrattuale aggraverebbe la situazione perché espellendo dal mercato le imprese marginali, si restringerà ancora di più la base occupazionale. L’unica forma di occupazione che sarà in continua espansione sarà quella altamente specializzata e quel laa tutt’oggi non (ancora) sostituibile con macchine come i front men, i camerieri, gli operatori sanitari in genere e tutti coloro che devono prestare cure o attività direttamente ai propri simili.

Per ritornare al problema dell’inefficacia dell’utilizzo del welfare aziendale per l’aumento delle risorse da mettere a disposizione dei lavoratori dipendenti, basta ricordare che gli imprenditori quando stabiliscono nei bilanci di previsione le risorse da destinare a un rinnovo contrattuale poi sarà la contrattazione a stabilire se vengono destinate all’implemento monetario del salario o di versato in forme di welfare aziendale, sempre nell’ambito del budget previsto.
Il legislatore con alcuni interventi normativi ha previsto la totale defiscalizzazione per coloro che utilizzano il premio di produzione per la previdenza complementare o la sanità integrativa e la tassazione al 10% per altre forme di welfare o trasferimenti monetari, riservati a coloro che hanno un premio di produttività per un importo massimo di 4.000,00 € annui e un reddito di 80.000,00 €.

Questo sistema non solo non raggiunge lo scopo se non marginalmente, ma non è privo di qualche criticità sociale, perché, generalmente mentre allarga la platea dei diritti e dei benefits dei dipendenti coinvolti, contribuisce ad aumentare la distanza fra questi lavoratori, che si potrebbero chiamare, con tutte le cautele ed i distinguo possibili, “privilegiati” rispetto ai disoccupati o inoccupati o ai lavoratori discontinui ed atipici o semplicemente ai dipendenti delle piccole aziende o “in nero”.
Intendiamoci il welfare aziendale come detto prima, è autofinanziato e quindi non gravante sulla finanza pubblica.
Se si analizzano questi accordi sottoscritti , in genere finanziati dai cosiddetti premi di produzione o di risultato, troviamo 10 aree di intervento, che sono ormai quasi costanti e che necessariamente fanno capo, come soggetti aventi diritto, ai dipendenti delle aziende sottoscrittrici degli accordi medesimi.

Le 10 aree sono:
Previdenza complementare
Assicurazione sanitaria
Long term care
Sicurezza sul lavoro
Formazione dei dipendenti
Previdenza (pagamento riscatti, accompagnamento alla pensione ecc)
Sostegno economico ai dipendenti
Conciliazione vita e lavoro
Sostegno ai genitori e figli
Cultura e tempo libero.

Manca una apertura generalizzata sui servizi di impatto sociale, allargate ai territori finendo con l’ aumentare, a fianco al divario fra i lavoratori dipendenti, anche quello fra le diverse Regioni, irrobustendo il circolo vizioso per cui ci sarà una parte del territorio nazionale dove viene creata e spesa la ricchezza ivi prodotta e una parte che ne viene deprivata.
I soggetti coperti da polizze assicurative di sanità integrativa, per patologie differenti dal Covid, hanno potuto continuare, per la maggior parte dei casi, a soffrire meno restrizioni ricevendo le opportune cure in strutture private.
E’ ovvio che il welfare aziendale non può farsi carico dei “nuovi rischi sociali”, ma elude il principio dell’inclusività.